In fabbrica, sul nastro trasportatore, aveva sentito le operaie parlare dell’Italia: si sta bene, dicevano, ci sono un sacco di cinesi, è come stare a casa. Così, quando scoprì che era proprio quella la sua destinazione, ne fu felice. Un Trolley, comunque, non è mai solo. Nel ripostiglio, o in giro con il padrone. Lui, poi, non era un Trolley qualsiasi: era curioso, attento, guardava, chiedeva. E nel corso degli anni ne vide e sentì tante.
Sugli scaffali dello sgabuzzino i cibi tradizionali sparirono, e tutto fu bio, etno. Peccato: con gli spaghetti si parlava, ma questo tofu non spiaccicava una parola.
Capì che quando le donne dicevano “amore”, non era mai il marito o il fidanzato, ma un’amica o il cane. A proposito di cani, a spasso per marciapiedi ne incontrò sempre di più. Una canea. Una sera ne vide addirittura uno con luci a intermittenza sul dorso e un giubbotto fosforescente.
Marco, il padrone di Trolley, non amava viaggiare. Ma Giuliana, la fidanzata, sì. Adorava soprattutto il trekking, e ogni settimana partivano per un cammino.
In città, invece, era tutto cambiato. Anche i cittadini. Nel suo palazzo cambiavano quasi ogni giorno. Arrivavano da ogni parte d’Italia e del mondo. Non suonavano al campanello, che non c’era più, ma digitavano a una tastiera. E se capitava di averlo dimenticato, si avvicinava uno che per qualche spicciolo glielo sussurrava in un orecchio: il pusher del codice.
Anche a notte fonda, quando le macchine si fermavano, in città non calava mai il silenzio. Restava sempre un rombo di sottofondo, sordo, costante. Il rumore del nuovo mondo: il mondo Trolley.